domingo, 11 de noviembre de 2012

"LA STORIA AL DI LÁ DELLE TRAPPOLE IDIOLOGICHE" Renzo de Felice por Gió Muratto

 
 

 



Lo storico era nato a Rieti nel 1929 ma viveva da sempre nella capitale. Una lunga malattia non gli consentì di concludere l'opera fondamentale, quel Mussolini in otto volumi pubblicato da Einaudi a partire dal 1965, il cui ultimo tomo, dedicato alla Resistenza e a Salò, avrebbe visto la luce postumo, trentuno anni più tardi. In verità l'opera di De Felice è stata tanto ampia quanto significativo è stato il suo contributo sul come fare ricerca. Non vanno trascurati ad esempio i primi saggi sul Settecento né i lavori metodologici come Le interpretazioni del fascismo (1969) né ancora i libri-intervista, da ultimo Rosso e nero (1995), tanto brevi quanto piccanti e ricchi di spunti.Sarà il tempo il vero giudice della storiografia defeliciana con la quale tutta la contemporaneistica resterà a lungo debitrice. De Felice abitava con la moglie Livia De Ruggiero in via Antonio Cesari 8, nel quartiere di Monteverde vecchio, presso il parco di Villa Doria Pamphili. In via Cesari trovavano posto anche l'archivio privato e lo studio dove egli era solito ricevere amici, ricercatori e studenti. Questo avveniva con spirito di grande affidabilità e cortesia - a volte in vestaglia da camera e con l'immancabile toscano tra le dita - indipendentemente dall'ospite. Allo studioso piaceva parlare e confidare la ricchezza delle proprie ricerche e delle esperienze vissute sul campo, a contatto diretto con le fonti.


Ecco cosa dichiarava nella sua ultima intervista.


Professor De Felice, lei nell'«Intervista sul fascismo» ha raccomandato l'uso del termine "maestro" con molta discrezione ma (...) chi ritiene abbia avuto maggiori influenza sui suoi studi?


«Due sono le persone che hanno, in tempi diversi, avuto una effettiva influenza; e quando dico in due tempi diversi è un fatto temporale, non che con questo il secondo sostituisca il primo. Delio Cantimori, il quale muore relativamente presto e Rosario Romeo. Questo io direi come problema mio. Poi altri che hanno avuto influenza: per certe cose Chabod, col quale imi laureai (...)».


In che cosa fu influenzato da Chabod?


«Da un suo certo modo di porsi di fronte alla realtà storica. Pensi ad esempio a


Le interpretazioni del fascismo. Il riguardo dato a Federico Chabod autore del saggio Croce storico ma anche quella di chiacchierate sia seminariali a Napoli, sia private, quando veniva a parlare con noi studenti, allievi dell'Istitutivo Croce, nelle ore dedicate allo studio e alla lettura (...)».


Chi erano all'epoca i suoi colleghi?


«Di stranieri c'era Alain Dufour, direttore e padrone delle Edizioni Droz di Ginevra, di italiani c'era Giovanni Busino che insegna a Losanna e cura l'Archivio Pareto; c'era Piero Melograni, Luigi Tassinari, Aldo Zanardo il filosofo, c'era Roberto Zapperi e Giuliano Rendi, laureato a Roma con Carlo Antoni, che si occupava di Ilerder ed in genere del problema del razzismo nella cultura tedesca (...)».


Quali furono la facoltà e la laurea?


«Mi laureai con Federico Chabod, in Storia moderna, con una tesi sul pensiero politico dei giacobini romani. Ed ero iscritto in Filosofia (...) scelta a dire il vero un po' complessa. Perché da un lato è l'influenza del momento, di un certo tipo di atmosfera culturale, di suggestioni... marxiste. Da un lato però fu un fatto pratico e strumentale. (...) Allora l'Università era cosa ben diversa da quella di oggi. Per esempio l'esame di latino con Ettore Paratore, scritto e orale, era una cosa che uccideva! I filosofi facevano solo la prova orale e questa era un tantino ridotta (...)».


Esiste una scuola di Renzo De Felice?


«Non so se esiste e se esiste perché taluni hanno trovato utile ed interessante, o almeno stimolante, certo tipo di discorso storiografico. Io non ho mai perseguito la costruzione di una scuola. Mi sono


passate per le mani, diciamo così, delle persone molto strane... intendo per formazione. Se una scuola c'è stata (...) forse è avvenuto nel pieno della contestazione. Per esempio la Silvia Costa non riusciva ad avere una tesi sul Partito Popolare, giudicata da alcuni una perdita di tempo. Cretinerie. E così, come per altri, ottenne la tesi sperata. Altri casi li sperimentammo insieme Rosario Romeo ed io: ci si presenta Adriano Romualdi a cui nessuno voleva concedere la tesi. Noi lo ritenemmo uno studente come tutti gli altri. Il giorno che fosse stato condannato per qualche emotivo se ne sarebbe potuto parlare in certi termini».


«Era però suo diritto laurearsi come avrebbero fatto altri, col consenso della legge, seppure in un secondo tempo, reclusi a Rebibbia. E così si laureò con me e con Romeo (...). Io - vedasi la collezione di "Storia contemporanea" - ho sempre evitato di dare una immagine ideologico-politica stabile. Io ho sempre detto,

purché non siano follie ma cose fatte seriamente, a me vanno bene. Sono disposto ad accettare il discorso anche più folle in apparenza - basta che mi dimostriate che non è folle - e quindi a pubblicarlo (...)».


Da cosa nasce l'impegno per una storiografia del fascismo locale?


«Degli studi di storia locale è evidente che vi è già traccia in certe cose cui io accenno nella


Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961) e poi ancora dopo. Questo blocco del fascismo come entità omogenea è una cosa che fin dall'inizio non mi ha convinto (...). Già dai tempi del mio primo incarico a Roma, poi quando sono andato a Salerno, ho tenuto conto che lo studente della provincia non ritengo debba essere obbligato, a meno che non voglia, a svolgere argomenti di tesi che lo costringano a spostarsi. Io stesso cerco studenti che abbiano chiaro ciò che intendono fare. Ma molti chiedono «una tesi». (...) Già a Salerno feci fare molte tesi sull'Italia meridionale, Campania, Lucania, Abruzzo. Preciso che a mio avviso si può risolvere tutto nella storia locale. Perché trenta Camere del lavoro o Fasci, studiati singolarmente, non offrono altro che un quarto ripetitivo, alla fine insufficiente (...)».


Cosa pensa del «revisionismo storiografico»?


«Non le voglio rispondere con una battuta che ogni tanto si era soliti ribattere, che cioè ciascun lavoro storico è revisionismo. Qui si tratta di intendersi. Faurisson, Nolte, un caro amico come Sternhell, De Felice sono dei revisionisti. Ma sa, il primo è una cosa; Nolte un'altra cosa, io stesso un'altra ancora (...). Questo revisionismo unico ed indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha fondamento e concretamente lo si può vedere confrontando quelli, mi lasci dire, più significativi (...)».

GIÒ MURRU
 


Lo storico era nato a Rieti nel 1929 ma viveva da sempre nella capitale. Una lunga malattia non gli consentì di concludere l'opera fondamentale, quel Mussolini in otto volumi pubblicato da Einaudi a partire dal 1965, il cui ultimo tomo, dedicato alla Resistenza e a Salò, avrebbe visto la luce postumo, trentuno anni più tardi. In verità l'opera di De Felice è stata tanto ampia quanto significativo è stato il suo contributo sul come fare ricerca. Non vanno trascurati ad esempio i primi saggi sul Settecento né i lavori metodologici come Le interpretazioni del fascismo (1969) né ancora i libri-intervista, da ultimo Rosso e nero (1995), tanto brevi quanto piccanti e ricchi di spunti.Sarà il tempo il vero giudice della storiografia defeliciana con la quale tutta la contemporaneistica resterà a lungo debitrice. De Felice abitava con la moglie Livia De Ruggiero in via Antonio Cesari 8, nel quartiere di Monteverde vecchio, presso il parco di Villa Doria Pamphili. In via Cesari trovavano posto anche l'archivio privato e lo studio dove egli era solito ricevere amici, ricercatori e studenti. Questo avveniva con spirito di grande affidabilità e cortesia - a volte in vestaglia da camera e con l'immancabile toscano tra le dita - indipendentemente dall'ospite. Allo studioso piaceva parlare e confidare la ricchezza delle proprie ricerche e delle esperienze vissute sul campo, a contatto diretto con le fonti.



Ecco cosa dichiarava nella sua ultima intervista.



Professor De Felice, lei nell'«Intervista sul fascismo» ha raccomandato l'uso del termine "maestro" con molta discrezione ma (...) chi ritiene abbia avuto maggiori influenza sui suoi studi?



«Due sono le persone che hanno, in tempi diversi, avuto una effettiva influenza; e quando dico in due tempi diversi è un fatto temporale, non che con questo il secondo sostituisca il primo. Delio Cantimori, il quale muore relativamente presto e Rosario Romeo. Questo io direi come problema mio. Poi altri che hanno avuto influenza: per certe cose Chabod, col quale imi laureai (...)».



In che cosa fu influenzato da Chabod?



«Da un suo certo modo di porsi di fronte alla realtà storica. Pensi ad esempio a


Le interpretazioni del fascismo. Il riguardo dato a Federico Chabod autore del saggio Croce storico ma anche quella di chiacchierate sia seminariali a Napoli, sia private, quando veniva a parlare con noi studenti, allievi dell'Istitutivo Croce, nelle ore dedicate allo studio e alla lettura (...)».



Chi erano all'epoca i suoi colleghi?



«Di stranieri c'era Alain Dufour, direttore e padrone delle Edizioni Droz di Ginevra, di italiani c'era Giovanni Busino che insegna a Losanna e cura l'Archivio Pareto; c'era Piero Melograni, Luigi Tassinari, Aldo Zanardo il filosofo, c'era Roberto Zapperi e Giuliano Rendi, laureato a Roma con Carlo Antoni, che si occupava di Ilerder ed in genere del problema del razzismo nella cultura tedesca (...)».



Quali furono la facoltà e la laurea?



«Mi laureai con Federico Chabod, in Storia moderna, con una tesi sul pensiero politico dei giacobini romani. Ed ero iscritto in Filosofia (...) scelta a dire il vero un po' complessa. Perché da un lato è l'influenza del momento, di un certo tipo di atmosfera culturale, di suggestioni... marxiste. Da un lato però fu un fatto pratico e strumentale. (...) Allora l'Università era cosa ben diversa da quella di oggi. Per esempio l'esame di latino con Ettore Paratore, scritto e orale, era una cosa che uccideva! I filosofi facevano solo la prova orale e questa era un tantino ridotta (...)».



Esiste una scuola di Renzo De Felice?



«Non so se esiste e se esiste perché taluni hanno trovato utile ed interessante, o almeno stimolante, certo tipo di discorso storiografico. Io non ho mai perseguito la costruzione di una scuola. Mi sono


passate per le mani, diciamo così, delle persone molto strane... intendo per formazione. Se una scuola c'è stata (...) forse è avvenuto nel pieno della contestazione. Per esempio la Silvia Costa non riusciva ad avere una tesi sul Partito Popolare, giudicata da alcuni una perdita di tempo. Cretinerie. E così, come per altri, ottenne la tesi sperata. Altri casi li sperimentammo insieme Rosario Romeo ed io: ci si presenta Adriano Romualdi a cui nessuno voleva concedere la tesi. Noi lo ritenemmo uno studente come tutti gli altri. Il giorno che fosse stato condannato per qualche emotivo se ne sarebbe potuto parlare in certi termini».



«Era però suo diritto laurearsi come avrebbero fatto altri, col consenso della legge, seppure in un secondo tempo, reclusi a Rebibbia. E così si laureò con me e con Romeo (...). Io - vedasi la collezione di "Storia contemporanea" - ho sempre evitato di dare una immagine ideologico-politica stabile. Io ho sempre detto,

purché non siano follie ma cose fatte seriamente, a me vanno bene. Sono disposto ad accettare il discorso anche più folle in apparenza - basta che mi dimostriate che non è folle - e quindi a pubblicarlo (...)».



Da cosa nasce l'impegno per una storiografia del fascismo locale?



«Degli studi di storia locale è evidente che vi è già traccia in certe cose cui io accenno nella


Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961) e poi ancora dopo. Questo blocco del fascismo come entità omogenea è una cosa che fin dall'inizio non mi ha convinto (...). Già dai tempi del mio primo incarico a Roma, poi quando sono andato a Salerno, ho tenuto conto che lo studente della provincia non ritengo debba essere obbligato, a meno che non voglia, a svolgere argomenti di tesi che lo costringano a spostarsi. Io stesso cerco studenti che abbiano chiaro ciò che intendono fare. Ma molti chiedono «una tesi». (...) Già a Salerno feci fare molte tesi sull'Italia meridionale, Campania, Lucania, Abruzzo. Preciso che a mio avviso si può risolvere tutto nella storia locale. Perché trenta Camere del lavoro o Fasci, studiati singolarmente, non offrono altro che un quarto ripetitivo, alla fine insufficiente (...)».



Cosa pensa del «revisionismo storiografico»?



«Non le voglio rispondere con una battuta che ogni tanto si era soliti ribattere, che cioè ciascun lavoro storico è revisionismo. Qui si tratta di intendersi. Faurisson, Nolte, un caro amico come Sternhell, De Felice sono dei revisionisti. Ma sa, il primo è una cosa; Nolte un'altra cosa, io stesso un'altra ancora (...). Questo revisionismo unico ed indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha fondamento e concretamente lo si può vedere confrontando quelli, mi lasci dire, più significativi (...)».

GIÒ MURRU

lunes, 22 de octubre de 2012

"EL PUEBLO INCULTO COMO RIESGO PARA LA DEMOCRACIA" , tomado de www.caidodeltiempo.blogspot.com.ar


“Mas toda la multitud dio voces a una, diciendo: ¡Fuera con éste, y suéltanos a Barrabás!”.
Lc 23,18
 
Conforme a Servando Teresa de Mier, en las repúblicas hispanoamericanas que surgieron hace casi dos centurias, el concepto de voluntad general era metafísicamente valedero, pero inaplicable debido al nivel cultural de sus habitantes. Esta tesis es sostenida por grandiosos pensadores latinoamericanos del siglo XIX; las críticas a un pueblo que no está listo para ejercer los roles encargados por la democracia representativa son, pues, frecuentes(1). En efecto, el tutelaje de los novísimos ciudadanos se juzgaba razonable porque la plebe nunca había garantizado ningún orden. Con todo, estos cuestionamientos no tienen originalidad, ya que recuerdan meditaciones vinculadas al despotismo ilustrado, cavilaciones que buscaban darle sustento a una monarquía preocupada por el adecentamiento del pópulo, pero renitente a otorgarle facultades decisorias en la vida política.
El desprecio por las nociones del común de la gente se halla en diversos autores. Mencionaré dos casos para no alejarme mucho del tema central. Roger Bacon, prominente filósofo inglés, dice: “Son cuatro los obstáculos para el conocimiento de la verdad: la frágil e indigna autoridad, la costumbre, la opinión del pueblo indocto y la propia ignorancia disimulada por una sabiduría ficticia”(2). Caminando por el mismo sendero, Bernard Mandeville declara sin sutilezas: “Yo no escribo para la multitud; me dirijo al pequeño número de personas elegidas que saben reflexionar y elevarse por encima de la vulgaridad”(3). Como varios escritores y filósofos, ambos razonadores suponen que la mayoría de los hombres objetan cualquier ejercicio intelectual, porque reputan superfluo incurrir en recogimientos gratuitos, esto es, actividades inadecuadas para la obtención de satisfacciones dinerarias. Siendo pocos los mortales que aspiran a reforzar sus conocimientos, guerrear contra las personas majaderas e iluminar la sociedad donde moran, su ideario no debería ser arrinconado jamás en aras de privilegiar dictámenes populares pero vanos y, a menudo, contraproducentes. Tendría que ser así; no obstante, nuestra realidad gusta del absurdo.
Cuando una población está compuesta por sujetos que no han accedido a la reflexión crítica autónoma, lo porvenir adviene junto con los peores gobernantes. Son riesgos de una forma gubernamental que no admite grandes distinciones al reconocer derechos políticos: cumpliendo cierta edad, todos pueden elegir a sus autoridades nacionales, departamentales o municipales. El problema no sería tan turbador si los candidatos elaboraran planes de acuerdo con lineamientos enseñados por la razón, asumieran que todo cargo público exige una preparación seria y no sólo ansias pecuniarias. Desgraciadamente, quienes participan en la disputa electoral suelen tener otras características: demagogia, rustiquez mental, corruptibilidad e inagotable concupiscencia. Ello significa que, salvo casos extraordinarios, las sociedades preponderantemente incultas eligen a sus dirigentes sin analizar los aciertos del programa ofrecido ni la verosimilitud de las promesas electorales(4). Como cuantiosos votantes actúan según dictados emocionales, no sorprende que José Wolfango Montes Vanucci haya escrito: “En nuestro país, para brillar, no se precisaba inteligencia sino garganta”(5).
“Lamentablemente, las cualidades requeridas para conquistar el Poder y conservarlo no tienen, en general, ninguna relación con las cualidades necesarias para ejercer ese Poder con competencia e imparcialidad”(6). Estas palabras de Jean-François Revel permiten mostrar otra faceta del asunto tratado. Acontece que, si bien la elección del candidato menos lúcido es perjudicial, las gestiones desarrolladas por éste hacen peligrar instituciones, reglas y convenciones vitales para cualquier Estado moderno. Lo llamativo es que se puede estar delante de un Gobierno elegido democráticamente, mas también decidido a terminar con esa obra humana. A fin de consumar este despropósito, considerando el actual panorama vulgar, le sobrarían ayudantes, exclusivistas que no aprecian las ventajas de vivir en donde los derechos fundamentales pueden más que un caudillo iletrado; dicho de otro modo, al tirano se le ofrecerían hombres resueltos a transformarse en instrumentos del aniquilamiento republicano. No exagero, pues "el totalitarismo considera a las masas no como seres humanos autónomos, que deciden racionalmente su propio destino y a quienes hay que dirigirse, por tanto, como sujetos racionales, sino como simples objetos de medidas administrativas, a quienes hay que enseñar, por encima de todo, a ser humildes y obedecer órdenes"(7).
Habiendo elegido a un político que no cespita si le toca generar hambrunas y mayor cesantía para soterrar a los oposicionistas, la porción cultivada del electorado debe recordar aquello que Domingo Faustino Sarmiento dijo a Valentín Alsina cuando experimentaban los efectos de un infortunio similar: “Tenemos lo que Dios concede a los que sufren: años por delante y esperanza”(8). Tal vez la calamidad dure un lustro; lo axiomático es que no conseguirá subyugar a todos los ciudadanos. Por suerte, hay individuos que, abandonando el sosiego del lugar común, revelaron temerariamente las pretensiones de un oficialismo tóxico. La horda puede seguir apologizando a su adalid; el deseo por tener una sociedad libre permanecerá íntegro hasta derrotarlos en las arenas que correspondan.
Procurando un remate antológico, cedo a la tentación de invocar al enorme Alcides Arguedas Díaz, quien escribió mientras discurría sobre Bautista Saavedra Mallea: “Como todo estudioso desinteresado y sincero, conocía las deficiencias de la turba, sus taras, sus vicios y la despreciaba profundamente, sosteniendo que las democracias semianalfabetas encumbraban fatalmente a los mediocres y que la popularidad en ellas era un signo evidente de vileza y de inferioridad”(9). Que los mentecatos continúen buscando el regazo del tropel; yo, rechazador de adulaciones sindicales, me quedo pensando en la quimérica ciudadanía ilustrada.

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(1) Cfr. Gustavo Escobar Valenzuela, La ilustración en la filosofía latinoamericana. México D.F.: Trillas 1990 [1980], páginas 48-53.
(2) Cita espigada por Guillermo Francovich en Los ídolos de Bacon, La Paz: Juventud 1974 [1938], págs. 11-12.
(3) Gustavo Escobar Valenzuela, obra citada, página 57.
(4) Al respecto, conviene rememorar a Herman Fernández: “Sabiendo que la masa de votantes se decidirá por el candidato cuyas proclamas se identifiquen más con ella; sabiendo que la identidad o determinación de la masa es escasa y manejada con más facilidad por los grupos de poder; y sabiendo, por último, que sus intereses expresados no coinciden muchas veces con sus intereses auténticos, superiores y duraderos; sabiendo todo ello, una pregunta surge con fuerza irresistible: el representante ¿debe ser elegido por apoyo mayoritario? O ¿deben los representantes, por el contrario, ser identificados de entre los más capaces, virtuosos y entregados, por mecanismos no utilizados todavía?” (Libertad puesta a prueba; Santa Cruz: Edición Municipal 1990, pág. 165).
(5) Wolfango Montes Vanucci, ¡Bolivia, adiós! Santa Cruz: La Mancha (La Hoguera) 2006, página 255.
(6) Jean-François Revel, Ni Marx ni Jesús. De la segunda revolución norteamericana a la segunda revolución mundial. Buenos Aires: Emecé 1971 [1970], pág. 58.
(7) Theodor W. Adorno, Ensayos sobre la propaganda fascista. Psicoanálisis del antisemitismo. Buenos Aires: Paradiso 2005, página 11.
(8) Carta-prólogo a la segunda edición de Facundo o civilización y barbarie en las pampas argentinas. Buenos Aires: Emecé (edición especial para La Nación) 1999 [1845], pág. 320.
(9) Alcides Arguedas, La danza de las sombras (tomo II). La Paz: Juventud 1982 [1934], página 157.
Nota pictórica. La obra que ornamenta el texto fue forjada por Ivanka Drofovska en 1990.

jueves, 18 de octubre de 2012

"LAS FORMAS DEL SUJETO POLITICO EN EL PANORAMA DE LO CONTINGENTE" por Catalina Vargas Tovar


El conocimiento no tiene otra luz iluminadora del mundo que la que arroja la idea de la redención: todo lo demás se agota en reconstrucciones y se reduce a mera técnica. Es preciso fijar perspectivas en las que el mundo aparezca trastocado, enajenado, mostrando sus grietas y desgarros, menesteroso y deforme en el grado que aparece bajo la luz mesiánica.
—Theodor Adorno, Minima Moralia.
(…) y el ritmo de la naturaleza de esa mundaneidad que es eternamente fugaz, que es fugaz en su totalidad tanto espacial como temporal, el ritmo de la naturaleza mesiánica, es la felicidad. Porque la naturaleza es mesiánica por su eterna y total fugacidad. Aspirar a ésta, incluso en esos grados del hombre que son naturaleza, es el cometido de la política mundial cuyo método debe llamarse nihilismo.
— Walter Benjamin, Fragmento político- teológico
Introducción
En el siguiente artículo me interesa sacar a flote una serie de cuestiones en torno a la relación entre las partes y el todo, entre el individuo y la sociedad, que surgen del estudio de la filosofía política desde la contingencia. Esta relación puede verse de varias maneras, ¿pero cómo describir la relación entre estas instancias en un contexto donde la contingencia emerge como el lugar de la política?
El esclarecimiento de la relación entre individuo y sociedad es una preocupación de la filosofía política que tiene una extensa trayectoria comenzando en la antigüedad y con un desarrollo distintivo en la modernidad. Podríamos, por ejemplo, inquirir este tipo de relación en autores como Hobbes, Hegel o Marx. Sin embargo, la indagación de esta relación bajo una perspectiva contingente, no guiada por un espíritu absoluto, por una metafísica, por una idea teleológica de la historia o por la apelación a una naturaleza primordial, nos invita a una revisión de la problemática del sujeto político. La pregunta sería entonces la siguiente: ¿cómo entender una relación política entre sujetos en el panorama de lo contingente?
El recorrido que propongo es el siguiente: en primer lugar, se discierne la relación entre individuo y sociedad a partir de una aproximación a la concepción de comunidad política en Kant según la ilustra Hannah Arendt. Con este panorama de la posición kantiana se busca mostrar la manera en que el sujeto se distancia de lo privado para ingresar en una comunidad política. El caso kantiano resulta paradigmático en la medida en que dibuja los lineamientos desde el espíritu ilustrado que resuena a lo largo de la modernidad y muestra el modo en que se puede lograr un vínculo social en una sociedad moderna, desmembrada y plural.
En segundo lugar, se emprenderá un análisis de la relación entre sujetos a la luz de la contingencia donde se tienen dos objetivos: primero, mostrar cómo se concibe al sujeto político en un panorama de consenso entre las partes; segundo, cómo se concibe en un paradigma de desacuerdo. El objetivo final del recorrido es indicar que, aún si la noción de sujeto político en ambos panoramas suponen una aceptación de a la contingencia, en ambos hay una comprensión diversa de lo político y de cómo entender al otro.
El sujeto político como pliegue de lo social
En Conferencias sobre la filosofía política de Kant, Hannah Arendt explica la manera en que el filósofo alemán se ocupa de fundar una comunidad política por encima del precepto aristotélico según el cual una comunidad tal se constituye de hombres y no de demonios o ángeles (Aristóteles, Política I, 1253 a 4): «El problema del establecimiento del Estado tiene solución incluso para una estirpe de demonios, por muy fuerte que suene» (Arendt, 2003: 40). Estos demonios están inclinados a exceptuarse a sí mismos, pueden desear robar pero no que el robo se convierta en una ley universal, es decir, en ellos prevalece una conducta pública más allá de lo personal. Esta versión demoníaca de la sociedad brota de un contexto ilustrado y moderno donde la multiplicidad de intereses busca cabida bajo la consigna del pensar por uno mismo. Considera la cuestión de la comunidad política entre sujetos heterogéneos que se sustraen de un vínculo metafísico o ideológico. Sin embargo, esto no desencadena una anarquía sino que nos pone frente a una relación particular entre lo público y privado. Según lo anterior, las individualidades están sujetas a un orden público el cual no constriñe su posibilidad de ser libres y tener un pensamiento autónomo. En esa medida, una comunidad política es posible entre sujetos diversos, e incluso, entre sujetos de desobediencia. ¿Cómo es posible una comunidad bajo estas condiciones? Para Kant, uno de los elementos fundamentales del sujeto político es que siempre se expone a lo público, los intereses privados no forman parte de la comunidad política.
Podemos decir que una concepción de comunidad política bajo estos trazos generales corresponde al momento histórico de la Ilustración. Algunos autores, entre ellos Michel Foucault, consideran que la modernidad está descrita en los lineamientos de este fenómeno intelectual y cultural4. La Ilustración es la época crítica que busca desmantelar todo pensamiento, escuela o institución que se funde en la oscuridad metafísica. Lo crítico es demoledor, anti-autoritario, pero sobre todo, un pensamiento que se «expone a un examen libre y público»—es decir, no es una actividad secreta y meramente privada—. Desde esta perspectiva, «el arte del pensamiento crítico tiene siempre implicaciones políticas» (Arendt, 2003:76). Esto sugiere que el predominio de lo público es algo que acompaña al espíritu crítico de la época. Esta esfera pública se impone sobre los intereses particulares y genera una forma de interacción desinteresada. El espíritu crítico se puede ver en las máximas del pensamiento que Kant esboza en la Crítica de la facultad de juzgar: el pensamiento humano debe ser desprejuiciado —pensar por uno mismo—, amplio —pensar en lugar de otros— y consecuente —pensar siempre acorde consigo mismo— (Kant, 1992:§40 Del gusto como una especie de sensus communis). Arendt llama la atención sobre el segundo de estos requisitos puesto que corresponde al escenario público en cuestión: debe haber un examen amplio de lo propio, es decir, es preciso ponerse en relación con otros y en el lugar de otros para lograr un pensamiento crítico.
Lo anterior nos pone ante un juego de interdependencia entre el individuo y la sociedad desde donde se puede lograr un juicio propio y válido sobre un asunto particular. Un sujeto no se comprende a sí mismo aisladamente y se debe distanciar de sus propios intereses para lograr entrar en un ámbito de sociabilidad. Esto describe un movimiento irónico en la medida en que se requiere un distanciamiento de sí para lograr una cercanía consigo mismo y con su mundo. Por otro lado, este tipo de vínculo entre individuos es político en al menos dos sentidos: se da a lo interno de un contexto social o comunidad política —es decir, no se impone desde alguna instancia externa sino que es un vínculo humano— e implica un reconocimiento tanto de lo propio como de lo diverso.
Sin embargo, la pluralidad que emerge en Kant es reducida pues tras ella reposa «el interés propio, no el interés por el mundo» (Arendt, 2003:45). Esta pluralidad es un ser entre otros conducido desde un interés egoísta: predominan un pensar por sí mismo y un deber que tenemos con nosotros mismos. Arendt sugiere que los ideales ilustrados privilegian al individuo —su autonomía y la consecuencia de su pensar— sacrificando el mundo —su contexto, su historia—. En ello hay manera parcial de concebir la pluralidad: el lugar «imparcial» del individuo, buscar ser consecuente consigo mismo, incluye al otro pero como una extensión de la propia conciencia —la cual reposa en parámetros trascendentales—. Esta posición frente a la pluralidad nos brinda indicios de la ausencia de una relación con la contingencia en Kant. De hecho, Arendt rastrea en Kant un germen melancólico frente a la contingencia que lo invita a justificarse más allá de sí mismo y de lo que lo rodea (Arendt, 2003:54). De manera que podríamos decir que todo otro que amplía la visión propia puede ser considerado un rodeo metodológico para lograr superar la contingencia en un orden universal.
Por lo indicado anteriormente, el pensamiento kantiano resulta sugestivo para ir desvelando la relación entre sujetos, que nos concierne en este ensayo, pero se sustrae del contexto contingente. Un pensamiento sumergido en la contingencia no puede apelar a parámetros universales, sino que debe abandonar la «melancolía» y tomarse en serio la particularidad y la pluralidad. Queda claro, sin embargo, que toda indagación sobre el sujeto político no es una indagación sobre lo privado, sino sobre el punto fundamental donde lo privado y lo público entran en contacto: el sujeto político es un pliegue de lo social. El predominio de lo público en Kant no es un obstáculo para la libertad de pensamiento y de expresión, se habla en términos de una libertad pública que debe ser garantizada por un Estado ilustrado; la libertad no está pensada en términos privados.
Algunos autores contemporáneos subrayan la necesidad de una subjetivación auténtica en las cuestiones políticas como garantía de su «politicidad».5 Un asunto político debe incluir un paso por lo personal y lo propio para que pueda ser considerado político y no desencadene o confirme dinámicas ideológicas o de dominación. Esta subjetivación a la que apelan estos autores contemporáneos no apunta a un ámbito privado existencial sino que, al igual que lo expuesto acerca de Kant, esta concepción de lo propio está sobre un escenario público. Esta subjetivación tiene que ver con la posibilidad de plantearse críticamente y autónomamente frente a lo dado, la posibilidad de ser una parte de lo político, en últimas, la posibilidad de ser uno entre otros. En estas reflexiones contemporáneas, la idea de una especie humana que se dirige progresivamente a un telos específico como lo plantea Kant en La idea de una historia universal en sentido cosmopolita, que versa sobre una naturaleza común entre los hombres, es abandonada. Las indagaciones sobre lo social y lo político en la actualidad no se inscriben en líneas teleológicas o esencias metafísicas. Por el contrario, se posan sobre la contingencia.
La contingencia es considerada por algunos autores la categoría que determina el pensamiento de la modernidad6. Es una condición del pensamiento filosófico y de la política que emerge históricamente como resultado de la caída de los grandes discursos sistemáticos y de las utopías políticas. La contingencia implica una historicidad en todo pensamiento y una apertura al movimiento de todo sentido alcanzado. Este término no permite hablar de un fundamento, ni siquiera de un punto de partida único o un punto de vista objetivo; implica que todo pensamiento o acuerdo político tiene como rasgos su historicidad y finitud. En la medida en que no hay un punto de apoyo trascendental que sirva de parámetro para las instituciones políticas, o para resolver conflictos entre partes, éste debe ser provisorio y concebido como un mecanismo susceptible al cambio. Algunos autores consideran que la democracia liberal es un ejemplo de pensamiento político que se ajusta a las condiciones de la contingencia7. Esto, ante todo, porque la contingencia implica una tolerancia de lo diverso, de lo que incluso puede ser inconmensurable con lo propio. Es preciso, sin embargo, aclarar que la contingencia no implica necesariamente un relativismo pues es posible mantener pretensiones de verdad dentro de lo contingente, aunque no se trata de una verdad en sentido absoluto8. Desde esta panorámica, lo contingente se sumerge permanentemente en juegos de lenguaje pero no constituye un obstáculo para llegar a tener posiciones críticas o, incluso, formular transformaciones de la realidad; por el contrario, nos invita a introducir matices en las reflexiones o decisiones políticas y a situarlas en marcos definidos, lo que significa que esta categoría atribuye un elemento reflexivo a la política. En últimas, la contingencia es un panorama donde hay un reconocimiento de la fragilidad y mortalidad del hombre y las sociedades.
Ahora bien, el paradigma de la contingencia tiene implicaciones en la concepción del sujeto político, en la manera en que el individuo se relaciona con los otros y con las instituciones políticas, pues no hay una naturaleza primordial que contenga, a priori, las condiciones de sujeto político. Es decir, el estatus político no está predeterminado por el nacimiento, pero tampoco es un asunto de voluntad individual. ¿Cómo se despliega el sujeto de lo político desde la contingencia?
Un acuerdo entre las partes
Hemos señalado que una serie de posturas contemporáneas de la filosofía política que reconocen la contingencia, aluden a la necesidad de una subjetivación en la política, aún si se sustraen de lo meramente privado. Recordemos a Hans Buchheim y su artículo ¿Qué significa pensar políticamente? para ver el lugar del sujeto político en el panorama del acuerdo.
Con ello sigue la experiencia de que en la convivencia humana todas las cuestiones concretas están entretejidas con cuestiones personales. Todo asunto es el asunto de alguien, es sostenido por determinadas gentes y, por ello, tiene un componente personal. (…) Pensar políticamente significa tomar en cuenta especialmente estos factores e incluirlos en el cálculo (Buchheim, 1985:31).
Ahora bien, ¿de qué manera se hace presente el componente personal? Buchheim quiere mostrar que una pura objetividad no es posible en la política. Sin embargo, esto no implica que la política deba sumergirse en una pura subjetividad, en un conflicto descarnado de necesidades e intereses privados. El campo de lo político no se puede abandonar a lo puramente arbitrario. El hombre forma parte de un tejido social que establece límites a lo personal, pero también potencia una «autocomprensión» de sí mismo. Más adelante nos dirá: «aquello que en una decisión no es objetivo, no tiene por qué ser necesariamente “arbitrario” en el sentido negativo de la palabra, sino que puede ser simplemente “personal”, es decir humano» (Buchheim, 1985:32). En otras palabras, lo personal no radica en una serie de cualidades específicas sino que se presenta en una generalidad humana, el hombre político no es un individuo aislado sino que participa siempre en lo social, es un pliegue social. Las decisiones políticas no buscan satisfacer necesidades particulares, sino que se articulan a partir de una «autocomprensión» de sí con relación a los otros (Buchheim, 1985:35). A la luz de lo anterior, lo personal no es algo que pueda ser explicado como una conciencia privada: al igual que en Kant, lo subjetivo no es una mónada sin ventanas. El hombre que participa de lo político no habla desde las necesidades básicas, es un sujeto que forma parte del mundo de la libertad9. En el mundo de la política, el sujeto debe mantener una cierta distancia consigo mismo: esta distancia es racional y consciente para Buchheim.
Sigamos con Buchheim: «Como razón de determinación para la confirmación de las relaciones con las demás personas, la “autocomprensión” puede ser distinguida claramente tanto de todo tipo de simpatía como de los intereses orientados hacia las necesidades» (Buchheim, 1985:35). Según esto, el proceso de «autocomprensión» se divorcia de la necesidad y también de la simpatía. Por simpatía debemos entender un ideal de armonía entre los hombres, un soporte y un parámetro de unidad previamente establecido. El que la «autocomprensión» involucrada en lo político no esté atada a la simpatía implica la posibilidad de una postura crítica frente al entorno, la posibilidad de distanciarse de las tendencias predominantes en lo social cuando se consideran contradictorias.10 Esto sugiere que el acuerdo entre las partes no es un punto de partida, más bien es el resultado de un tipo de cálculo dialógico.
Según Buchheim, en lo político tiene lugar un encuentro totalmente libre: no hay nada previamente dado ni fines previos, en ello radica su contingencia. Bajo estas condiciones, el diálogo político busca llegar a acuerdos que se desarrollan libre y racionalmente. El proceso comunicativo que se da en lo político es independiente de cualquier determinación previa y apunta hacia la posibilidad de establecer cambios: los acuerdos políticos pueden crear nuevas estructuras institucionales y legales. Ahora bien, las características del diálogo político y la tendencia a objetivarse y formar estructuras a partir de acuerdos despiertan interrogantes. Por ejemplo, cabe preguntarnos por la noción de acuerdo, pues parece dirigirnos a un ideal de comunicabilidad que vale la pena explorar. Es claro que Buchheim no parte de una simpatía entre los hombres, pero una instancia común parece situarse en el horizonte de toda discusión; aún más, parece asumirse que tenemos la facultad de comunicarnos unos con otros en igualdad de condiciones. Esto implicaría que, según Buchheim, iniciamos un diálogo buscando calcular un acuerdo y buscando superar los obstáculos para llegar a ello bajo la asunción que podemos hacerlo. La noción de acuerdo entre las partes supone que hay una comunidad de diálogo.
Quisiera hacer una breve mención a la comunicación racional que se requiere para el acuerdo político en Buchheim. El mundo de lo político no es una terra incognita, el lenguaje político no se distancia de nuestro modo de pensar y de hablar en el mundo cotidiano. El pensamiento político no funciona con categorías diversas a las de nuestro pensamiento cotidiano, en otras palabras, no es un mero cálculo matemático sino que incluye la complejidad de lo vital. Esto no implica que sea un asunto irracional. Buchheim lo describe como una comunicación persuasiva y táctica: la capacidad y disposición de tomar en cuenta la otra parte e integrar su forma de ver las cosas con la propia. La racionalidad persuasiva por la que aboga Buchheim se escapa de caer en un relativismo y una irracionalidad, parte de un lenguaje común entre las partes. La persuasión es un tipo de comunicación que asume que las partes comparten un lenguaje, que son un tú y un yo en igualdad de condiciones racionales. Sin embargo, esta noción de igualdad nos invita a preguntarnos sobre la pluralidad, sobre qué postura asume frente al otro y en el proceso de comunicación. ¿Podemos seguir compartiendo la idea que se comunican con el mismo lenguaje en igualdad de condiciones? ¿Podemos seguir pensando que el proceso de persuasión es transparente y que no encubre dinámicas de dominio? Es posible establecer que Buchheim parte de una comunicabilidad entre las partes de la cual podemos dudar.
Para Buchheim, lo político tiene un elemento personal que es imprescindible y esto implica que todo diálogo está lleno de tensiones vitales. Parece, no obstante, que persigue un acuerdo que se acoge en condiciones neutras y que podríamos llamar académicamente viables. El cálculo logrado a través de la persuasión va construyendo un campo neutral para el acuerdo buscado. Debemos conceder que la noción de acuerdo no es un punto final a las relaciones humanas sino una estación efímera en proceso de cambio, es casi una idea regulativa en el diálogo. Pero una concepción de este tipo, donde se crean estructuras sociales a partir de una inclusión calculada de variadas personas, genera un entorno donde una postura crítica es cada vez menos factible. El hecho que las relaciones entre las partes desemboquen en una objetivación, formen instituciones, parece llevarnos a ver en estas relaciones políticas una suerte de superación de lo personal en todo acuerdo. Las instituciones, aún si son resultado de procesos de acuerdo, van constituyendo un campo visible e innegable frente al cual no es fácil seguir manteniendo una relación crítica.
Un desacuerdo entre las partes
Nos ocuparemos ahora de presentar como contrapunto, el análisis del sujeto político desde la perspectiva de Jacques Rancière para quien prevalece el desacuerdo y el disenso. Rancière denuncia los problemas que trae consigo un sistema consensual pues considera que es la cancelación de la política. En su análisis constata la imposibilidad de hacer un cálculo de las partes o un contrato sólido entre ellas, puesto que hay partes que no tienen parte en lo social. Como ejemplo originario de estas partes sin parte está el demos griego: una parte indeterminada y caracterizada por una cualidad vacía, a saber, la libertad11. En contextos más contemporáneos, el proletariado y la mujer también fueron considerados una parte sin parte. Lo anterior significa que no es posible hacer un cálculo aritmético en lo social: todo cálculo tiende a basarse en parámetros de utilidad y no incluye lo perjudicial, es decir, aquello que no tiene una cualidad positiva en lo social. Ese nivel primario del desacuerdo, que patentiza la contingencia de toda organización humana, es el ámbito de la política, una política como litigio y no como acuerdo.
Rancière parece ir en contravía de las líneas tradicionales de reflexión política pues establece que «es la relación política la que hace posible concebir al sujeto político, no a la inversa» (Rancière, XI tesis sobre la política. Tesis II). Esto significa que no hay un sujeto anterior a la política, no es algo previamente dado, no basta estar rodeado de otros y tampoco la voluntad del sujeto de construirse a sí mismo en una dinámica relacional: para la institución de un sujeto político es necesaria una ruptura con el orden social a partir del cual se realiza el cálculo para acuerdos. Esto significa que la política no ocurre en todo momento y en todo lugar, sino que acontece históricamente. Rancière nos dice que la política es «un accidente recurrente en la historia de las formas de dominación» (Rancière, XI tesis sobre la política. Tesis VII). Es así como en un momento dado la mujer se hace un sujeto político, en otro, el obrero. Su inclusión en lo social, el momento en que se hacen visibles en un orden que los excluía, supone la creación de un nuevo espacio, por ello «la tarea esencial de la política es la configuración de su propio espacio, lograr que el mundo de sus sujetos y operaciones resulten visibles. La esencia de la política es la manifestación del disenso, en tanto presencia de dos mundos» (Rancière, 11 tesis sobre la política. Tesis 9).
La relación de las partes no es de por sí una relación política, sino que se da gracias a la política, al quiebre que permite que unos se encuentren con otros. La comunicación entre iguales no se puede suponer en las relaciones entre unos y otros sino es algo a lo que se espera llegar por medio de un litigio político. Hay una incomunicabilidad anterior a la comunicabilidad que se puede sustentar en la distinción aristotélica entre voz y logos según la cual hay unos animales fónicos y unos lógicos. La voz es algo que el hombre comparte con los animales, con ello puede expresar sentimientos de placer o de dolor. El logos en cuanto lo más propio del hombre, le permite manifestar lo útil y lo nocivo, y en consecuencia, lo justo y lo injusto (Aristóteles. Política I 1253 a 9-18). Esta posibilidad de comunicarse a partir de un logos sugiere que es posible formular un orden social de lo justo y lo injusto, pero que anterior a ese bien común hay un lugar de disenso que no puede ser superado con una lógica del cálculo puesto que conlleva factores inconmensurables. La igualdad del logos común a todos los hombres, una igualdad de cualquiera con cualquiera, no puede ser traducida a una igualdad aritmética o una igualdad geométrica. Todo sistema común es una distorsión, hay un desequilibrio secreto que perturba la construcción armónica puesto que hay partes sin parte en lo político. Pero es gracias a esta distorsión que es posible la política como una irrupción de una parte de los «incontados».
A la luz de la distinción entre voz y logos, es pertinente mencionar el caso de los esclavos, los cuales eran considerados personas capaces de comprender el logos pero no lo poseían: sus palabras eran sólo expresiones de placer o dolor. Por ello no se los escuchaba como iguales. Esto señala que la comunicabilidad es algo que se da en varios niveles, no todos son escuchados del mismo modo y los niveles de comprensión pueden ser variados. A la relación entre las partes sociales, aunque se manifiesta como una relación entre iguales, le subyace un desacuerdo que puede ser explicado en términos lingüísticos. El desacuerdo es una situación en donde, aunque los interlocutores se entienden, hay un litigio que está relacionado con visiones de mundo y formas de hablar. El sujeto movido por su capacidad de logos se inscribe en un mundo político oponiendo su propio mundo. La política, como este encuentro entre mundos, nos hace ver la fragilidad de todo acuerdo y la contingencia de todo orden social.
En El desacuerdo: política y filosofía, Rancière ilustra el proceso de inscripción de un nuevo sujeto en el relato de la secesión de los plebeyos romanos en el Aventino12. En la reconstrucción de esta situación de conflicto se evidencia que no basta con la palabra para inscribirse en un escenario común, pues por sí misma es un signo ambiguo y puede no ser escuchada por quienes tienen posiciones de poder. En Aventino, los plebeyos eran considerados por los patricios como personas sin nombre, con una vida primitiva y puramente individual, por lo tanto, capaces de emitir ruidos pero no palabras. La manera en que este escenario de litigio entre partes de entrada inconmensurables se generó fue por acciones que inscribieron a los plebeyos en una vida colectiva y generaron un nuevo logos: un nuevo un modo de pensar, de hablar y de actuar. Es decir, se genera una nueva partición sensible en el mundo.
Si relacionamos ésta dinámica con la descrita a partir de Buchheim, podemos constatar que el sujeto político no es nunca un sujeto individual aislado. Un sujeto político se da en una relación generativa entre uno y muchos. Rancière nos dice al analizar el caso del revolucionario Auguste Blanqui: un sujeto político es uno de más, un sujeto excedente. La relación que se mantiene entre sujeto y sociedad es crítica: el sujeto es argumentador, expresa lo común y lo no común, se da en «el juego completo de las identidades y las alteridades implicadas en la demostración» (Rancière, 1996:80). De manera que un sujeto político no es un individuo aislado, pero tampoco es inmediatamente una parte. Toda subjetivación se da en un juego lógico donde múltiples instancias se pliegan. El sujeto que es argumentador y que es uno de más, demuestra una comprensión manifestando una diferencia.
Las reflexiones a partir de Rancière no son del todo incompatibles con las de Buchheim en la medida en que podemos seguir hablando de un sujeto político que no se define a partir de sus necesidades particulares sino que es una instancia pública, sigue siendo un pliegue social en el panorama de lo contingente. Sin embargo, pone en crisis la idea de comunicabilidad que posibilita un diálogo entre partes y la subjetivación que requiere la política se dirige a generar un mundo nuevo, no a reformar las instituciones. Para captar mejor la distancia entre ambas posturas, veamos qué características tiene el sujeto político de Rancière:
1. Un sujeto político como singular y crítico
La política en su época nihilista comienza así: «La política existe mientras haya formas de subjetivación singulares que renueven las formas de la inscripción primera de la identidad entre el todo de la comunidad y la nada que la separa de sí misma, es decir de la mera cuenta de sus partes» (Rancière, 1996:153). El componente subjetivo apunta hacia un gesto de irrupción, un quiebre con la identidad de lo social. Lo subjetivo provoca un desajuste y remueve la partición visible del mundo. En esa medida, la subjetivación tiene un perfil crítico y performativo: toma distancia de su entorno, nos señala un entorno posible y promueve una reconfiguración de la realidad. Esta nueva partición no es, como en Buchheim, visible en estructuras e instituciones sino que desemboca en una nueva partición de lo sensible, una nueva percepción de los sujetos y del mundo político13.
Esta concepción del sujeto político nos permite captar su singularidad, aún sí se presenta en un escenario junto con otras partes. La singularidad que se propone no es una negación de la pluralidad, puesto que es a través de los otros que se construye un sujeto: la comunidad es un inter-esse comprendido como interrupción14; sin embargo, todo otro no es entendido como un rodeo de la propia conciencia sino como otro mundo inconmensurable con el propio. La singularidad es un lugar de pliegues donde varios factores entran en juego y donde no existe una identidad como telón de fondo: la pluralidad se asume desde la diferencia y no desde la comunicabilidad.
2. Des-identificación como momento de subjetivación
Ahora bien, la subjetivación que está implicada en esta concepción de lo político no significa identidad consigo mismo, puesto que estamos situados entre varios nombres y partes. Lo político no es algo puesto en común, este sentido de comunidad implica eliminar las contradicciones entre lo dado y lo no dado, lo común y lo privado, lo propio y lo impropio. La compasión, el sentimiento humanitario, la neutralidad académica del diálogo y la buena voluntad no tejen lazos de comunidad política: la realidad de lo político es el litigio. De hecho, en ocasiones el camino político no es la identificación con el otro sino la des-identificación con lo que creemos que somos. La construcción de un sujeto político no es el proceso de una conciencia sino que incluye un extrañamiento de sí mismo. Es un proceso que incluye la experiencia de la negatividad. Esta negatividad no implica deshumanización, sino la apertura de un lugar de pliegues entre unos y otros. Una subjetivación política implica un proceso de des-identificación con lo establecido, es una nueva inscripción en el logos, no es afirmación de lo establecido. En esa medida es un proceso literario y no literal: implica una modificación entre el orden de las palabras y el orden de los cuerpos.
3. Sujeto de acción y de mundo
Rancière nos dice: «la política es un asunto de sujetos, o más bien de modos de subjetivación. Por subjetivación se entenderá la producción mediante una serie de actos de una instancia y una capacidad de enunciación que no eran identificables en un campo de experiencia dado, cuya identificación, por lo tanto, corre pareja con la nueva representación del campo de la experiencia» (Rancière, 1996:52). Aquí encontramos factores importantes: la construcción de un escenario político no es intelectual sino que es correlativo al campo de la experiencia. En su presentación de la filosofía política kantiana, Hannah Arendt echaba de menos el nivel de la experiencia humana, un elemento que también es secundario en la reflexiones de Buchheim quien hace referencia principalmente a la generación y modificación de instituciones. El sujeto político no es una instancia puramente lógica sino que promueve una relación práctica con la realidad. De esa manera re-configura la experiencia dada al inscribir lo heterogéneo y lo ausente en la comunidad: es una transformación de lo dado y no de lo administrativo. El ejemplo de Aventino descrito con anterioridad nos muestra la relevancia de las prácticas como un factor que posibilita un escenario político.
4. La inscripción poética del sujeto
Ahora bien, este encuentro de mundos inconmensurables supone un problema en el diálogo político. El escenario que propone Rancière es singular: se asume como si hubiera un mundo común de argumentación. Esto es algo que emerge como un supuesto sensato pero que realmente tiene un contenido subversivo, es subversivo porque ese mundo común no existe (Rancière, 1996:72)15: no hay un mundo en donde los patrones y los obreros intercambien argumentos en igualdad de condiciones. Para Rancière, la realidad establece diversos niveles de comprensión: puede pensarse que hay comprensión entre las partes, pero hay situaciones de habla en donde se manifiesta el desacuerdo básico. Esto tiene implicaciones en las reglas de juego para toda argumentación. Pone en evidencia que no hay una normalidad en lo que se dice. Es por ello que Rancière, recuperando elementos de Habermas, recuerda el rol de los lenguajes poéticos en la apertura al mundo. Lo poético se distancia de lo lógico en la medida en que se plantea de manera singular, en forma de casos de existencia. Lo poético es una manera singular de ponerse en un diálogo entre partes inconmensurables. Esta argumentación singular nos hace pensar que en la política, en tanto inscripción de los sujetos en un nuevo espacio, se utiliza una manera de expresarse paradójica, a saber, una lógica estética. El diálogo político, por lo tanto, se presenta a la vez como racional y metafórico: «con juegos de lenguaje y regímenes de frases heterogéneas, siempre se construyeron intrigas y argumentaciones comprensibles» (Rancière, 1996:69). El atributo de lo metafórico no implica irracionalidad, sino un lenguaje que surge desde lo singular de cada parte.
A la luz de lo anterior, podemos decir que la interlocución política en cuanto juego entre el logos y lo sensible implica una estética de la manifestación. Esta calidad estética le da la posibilidad de conectar mundos separados de expresión por encima de parámetros de utilidad y definiciones lógicas. El concepto de estética hace justicia a la singularidad de cada parte y a la particularidad de su lenguaje a la vez que apunta a una comunidad virtual, una comunidad no efectiva aún, que podemos esperar. Rancière sugiere una «estetización» de la política para poder comunicarse desde el desacuerdo, sin reducir a las partes y sin amputar su singularidad. No hay un lenguaje común y originario sino formas de hablar diversas cuya compatibilidad no sólo es argumentativa sino también estética: «La invención política opera en actos que son a la vez argumentativos y poéticos, golpes de fuerza que abren y reabren tantas veces como sea necesario los mundos en los cuales esos actos de la comunidad son actos de comunidad» (Rancière, 1996:81). Por ello lo poético no se opone a lo argumentativo, sino que abre un espacio diverso de diálogo. Lo argumentativo no es un privilegio de una comunidad unitaria, entre regímenes y lenguajes heterogéneos siempre se pueden construir argumentaciones comprensibles: el ejemplo paradigmático es el de Aventino, el cual Rancière considera un origen de lo político que se repite siempre.
Conclusión
A lo largo de este recorrido por el panorama de la contingencia, hemos plasmado un contraste a partir de la filosofía política de Buchheim y Rancière que pueden ser considerados casos ejemplares de los paradigmas del acuerdo y desacuerdo entre las partes. Este contraste nos señala una brecha entre las posturas políticas contemporáneas frente a los retos de la contingencia. Ambos autores coinciden en la importancia de una subjetivación en la política, pero entienden cosas distintas por política y por diálogo político. El hecho que abran paso a la subjetivación alude a que son herederos de una tradición ilustrada que promueve la crítica frente a lo dado, que defienden la autonomía buscada por el hombre moderno. Estos factores permiten concluir que la política es un asunto de hombres diversos que se relacionan apelando a su posibilidad de ser libres, su capacidad de no hablar desde la mera necesidad y desde los intereses privados, su situación como pliegue de lo social. Ahora bien, lo que diferencia radicalmente ambas posturas es su comprensión de la política y, en consecuencia, su concepción de los lugares desde donde cada uno entra en relación con un otro.
La política como acuerdo y como desacuerdo apuntan a lugares distintos pero que no necesariamente se anulan uno a otro. La postura del acuerdo, aún si tiene el rasgo crítico que reconoce la movilidad de lo dado, parece dirigirse más a una idea de la política como la administración de lo dado a partir de dinámicas de diálogo entre partes. En cambio, la política como desacuerdo parece dirigirse a una idea de la política como revolución, como cambio del orden dado de las cosas al incluir nuevas partes en la esfera de lo político, partes que entran en tensión con otras. Vale la pena aclarar que el término de revolución que aquí utilizo como forma de explicar la ruptura y el quiebre al que alude Rancière no implica violencia —el caso de la revolución femenina es un ejemplo clásico de cómo la revolución no es necesariamente violenta— sino un diálogo entre partes ante todo inconmensurables. La idea de política que cada uno de los autores plantea implica una idea de diálogo político diverso: mientras para Buchheim se trata de un ejercicio persuasivo —que hemos señalado asume que las partes tienen una igualdad de condiciones tanto de comprensión como de expresión en el diálogo político—, para Rancière es necesario invocar una nueva lógica para lo político que tendría que ser estética: capaz de unirnos desde la singularidad de cada postura. La primera postura tiene sentido desde un punto de vista administrativo, de reformación de instituciones y de leyes. La segunda postura tiene sentido si lo que nos interesa es configurar un mundo y un lenguaje distintos: esto es, si consideramos que lo político tiene la posibilidad de transformar la experiencia de crisis del mundo actual.
Para lograr un contraste aún más explícito de ambas posturas queda indagar por cómo cada una de las posturas entiende el tema del poder y su rol en el diálogo. En el caso de Rancière parece que el ejemplo de los patricios plantea el poder desde autoridad, dominación e, incluso, violencia. En cambio desde la postura de Buchheim el poder parece no estar presente en la neutralidad casi académica del diálogo político. ¿Qué idea de poder está entretejida a lo interno de las posturas identificadas por el presente ensayo? Igualmente, si plantemos el problema desde la pedagogía que cada postura política sugiere, evidentemente surgen nuevos interrogantes. Por ejemplo, en Rancière habría que volver sobre el tema de una educación sentimental si no nos tomamos en serio su postura estética y en Buchheim habría que indagar la pedagogía retórica implicada en su postura frente a la persuasión.
No obstante, según parece, las dos posturas no se anulan una a la otra: lo administrativo y lo revolucionario de ambas posturas son momentos presentes en la experiencia del mundo político. Rancière nos dice, sin embargo, que el consenso —se pronuncia específicamente frente a la figura de los derechos humanos universales16 a la luz de las guerras étnicas contemporáneas— es algo así como la muerte de lo político17, puesto que no asume el reto de enfrentarse a la diferencia y a las visiones de mundo diversas. En este sentido, es posible pensar que su postura tiene un discurso de la otredad mientras que la del panorama del acuerdo, al menos con el caso del ensayo que hemos analizado de Buchheim, el otro puede ser reducido a un rodeo metodológico de lo propio, susceptible de un cálculo efectuado bajo los paradigmas de identidad. Respecto a ello, ambas formas de asumir la política también conllevan una manera diversa de asumir la diferencia. Una relación entre sujetos bajo el panorama del desacuerdo no elimina las contradicciones, pero genera nuevos espacios. Aún más, incluye nuevos lenguajes en el diálogo político, lo que promueve una indagación sobre la forma de argumentación en la política. En el caso contemporáneo de las guerras étnicas, los resultados nos permiten ver que la administración de recursos desde un cálculo de la igualdad no es suficiente, se han desgastado o se encuentran en una encrucijada para comprender el mundo del otro. En este sentido, el panorama del desacuerdo parece más abierto a enfrentar dos mundos y a la comprensión del inter-esse, del ser con otros que es, al final, la tarea de la política.


1 Este artículo es producto de la investigación realizada por la autora en el marco de la línea de investigación de filosofía política y estética, en la Universidad Nacional de Colombia.
2 Magister en filosofía.
3 Candidata al doctorado en filosofía.
4 Para ampliación de esta idea, ver el artículo: ¿Qué es la Ilustración? de Michel Foucault.
5 En el seminario de Contingencia y Política se estudiaron varios ejemplos. Para mencionar algunos: Hans Buchheim, Richard Rorty y Jacques Rancière. El proceso de subjetivación alude a que la política no sucede en un ámbito de objetividad pura, sino que intenta incluir diversas voces en un diálogo. Podría verse como una modalidad de la herencia ilustrada puesto que supone la autonomía y el pensar consecuente del individuo en el panorama social, al mismo tiempo que confirma que lo político no es algo de corte metafísico sino que es humano. Esto último significa que es histórico, finito y contingente.
6 Nuevamente menciono a algunos autores que fueron estudiados en el seminario Contingencia y Política: Luhmann, Crespi, Rorty, Galli y Rancière.
7 Un ejemplo de esta postura puede encontrarse en Rawls y Rorty aún si son la manera en que cada uno comprende la democracia liberal es diversa.
8 En este punto quizá debamos recordar a los dos autores que introducen este artículo. Theodor Adorno y Walter Benjamin en sus posturas políticas aludieron a una idea de felicidad o redención como lugares desde donde se puede percibir los modos en que la verdad puede ser referida en el panorama de la contingencia. No nos concentraremos en desarrollar esta postura en la presente reflexión, aunque vale la pena anotar que son ideas que se acoplan a lo provisorio que implica lo contingente.
9 Habría que indagar más a fondo la noción de libertad que Buchheim considera en su reflexión. Claramente no es un término que se defina desde lo privado, sino que tiene sentido desde lo público. Sin embargo, por razones de brevedad, no nos detendremos en esto.
10 La idea de poder tener una postura crítica frente al entorno dentro de un orden social establecido es análoga a la idea de una libertad pública descrita principalmente como libertad de pensamiento y de publicación en Kant. No obstante, en un contexto contemporáneo, donde el derecho a la publicación es un aspecto en gran medida garantizado por las instituciones políticas, e incluso, apoyado por ellas, uno se pregunta si acaso la postura crítica que es necesaria en nuestro contexto no debe ir más allá de este libre pensar y publicar.
11 Para una comprensión de la noción de libertad, Rancière analiza la caracterización del demos en la Política de Aristóteles. Ver el capítulo Los comienzos de la política en El desacuerdo: filosofía y política.
12 El se basa en la reconstrucción del relato de Tito Livio que hizo Simon Ballanche en la Revue de Paris en 1829 donde analiza el acontecimiento no como una revuelta llevada por la miseria y la ira, sino como una escena de conflicto donde dos mundos se encuentran para debatir. La cuestión es lograr ver si era posible un escenario común para plebeyos y patricios. Ver: Los comienzos de la política.
13 Para Rancière el plano institucional y administrativo que actúa bajo lo consensual no es lo propio de la política. Él reserva el concepto de policía para un manejo de lo social que busca mantener una agrupación social bajo prácticas racionales. Inspirado por el estudio de Foucault titulado Omnes et Singulatum donde se rastrean los orígenes del Estado moderno, Rancière recupera el concepto de policía para designar los procedimientos administrativos que tienden a abarcar aspectos tan dispares como la justicia, el ejército, la hacienda y la vida activa de los hombres. Para Foucualt la policía es un ejemplo de la supervivencia de prácticas del poder pastoral en los Estados modernos: un poder que totaliza e individualiza a los ciudadanos al establecer los parámetros de una vida feliz y los mecanismos para establecerlo. Para Ranciere «Generalmente se denomina política al conjunto de los procesos mediante los cuales se efectúan la agregación y el consentimiento de las colectividades, la organización de los poderes, la distribución de los lugares y funciones y los sistemas de legitimación de esta distribución. Propongo dar otro nombre a esta distribución y al sistema de estas legitimaciones. Propongo llamarlo policía» (Rancière, 1996:43). Nuestro autor hace la aclaración que no es un término que se deba asumir negativamente sino neutralmente. Es una manera de administrar lo visible y lo decible. La política rompe con esa configuración visible y manifiesta la contingencia de ese orden policial.
14 «La comunidad política es una comunidad de interrupciones, de fracturas, puntuales y locales, por las cuales la lógica igualitaria separa a la comunidad policial de sí misma. Es una comunidad de mundos de comunidad que son intervalos de subjetivación: intervalos construidos entre identidades, entre lugares y posiciones. El ser junto político es un ser-entre: entre identidades, entre mundos» (Rancière, 1996:171).
15 Aquí es posible plantear el correlato con el flaco mesianismo planteado por Benjamin (Tesis de la filosofía de la historia), Adorno (Minima Moralia) y el mesianismo sin mesianismo de Derrida (Espectros de Marx) que apunta hacia esta ausencia de la justicia y la democracia.
16 Para la ampliación de su crítica a los Estados de derecho y a la lógica de los sistemas «humanitarios» ver: La política en su época nihilista.
17 Aquí apela a la distinción de Foucault entre política y policía que aparece en el texto Omnes et Singulatum.


Referencias
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